Giorgio Scerbanenco è noto per aver introdotto in Italia i primi noir, quei romanzi criminali densi e caliginosi che a poco a poco sono venuti estromettendo il mystery tradizionale, quale s’era codificato oltremanica e oltreoceano. Eppure Sei giorni di preavviso, la sua prima prova ora ripubblicata da Sellerio, è un giallo che più anglosassone non si può. Ma si tratta di un’ambientazione che si è dovuta acclimatare in Italia, sì che non ha niente dell’eleganza algida delle più tipiche e pretenziose detection novel. Quel che più impressiona di questo testo è l’intensa malinconia che contraddistingue Arthur Jelling, il funzionario incaricato delle indagini circa le misteriose minacce di morte contro un attore in declino, tale Philip Vaton. Il timido segugio analizza con logica implacabile ma profondamente mesta i meandri dell’animo umano, impelagandosi così, quasi senza indizio, in un groviglio ingarbugliatissimo. Quell’ometto dimesso ma compito, inappuntabile e per la verità percorso da rovelli sotterranei – la nevrosi dell’intelligenza -, è quasi un controcanto al vitalismo e alla retorica del fascismo, periodo in cui la storia è stata appunto scritta. Con affascinante elusività il giovane Scerbanenco è riuscito a sottrarsi alle maglie della censura del regime, ammiccando con trasparente anglomania alla più British delle metropoli statunitensi,
Rosario Pollina
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